LA STUPIDITA’ HA LIMITI?

LONDRA – Nelle scuole elementari britanniche sarà proibito usare l’espressione «mamma e papà» e diventerà obbligatorio utilizzare l’espressione neutra «genitori», in modo particolare nelle comunicazioni a casa. Come scrive mercoledì il popolare quotidiano Daily Mail, il ministro per la Scuola e l’infanzia Ed Balls farà propria la proposta lanciata dall’organizzazione per i diritti degli omosessuali Stonewall, mirante ad abituare i bambini britannici delle elementari all’idea che potrebbero esserci genitori dello stesso sesso.

DIRITTI GAY – Secondo gli attivisti di Stonewall, l’espressione «mamma e papà» lede i diritti dei genitori omosessuali e favorirebbe pregiudizi anti-gay, inoltre ritengono che i bambini non dovrebbero avere un’idea «convenzionale» della famiglia. Ma non solo: l’iniziativa prevede che, quando si discuterà di matrimonio nelle scuole medie, gli insegnanti dovranno parlare anche delle unioni civili e dei diritti sulle adozioni gay.

TOLLERANZA ZERO – La proposta di Balls tende inoltre a combattere l’intolleranza nei confronti degli omosessuali e prevede punizioni per chi offenderà un compagno chiamandolo gay. Tra le espressioni che dovrano essere bandite dalle scuole britanniche ci sono anche: «comportati da uomo» e «siete un branco di donnicciole». Il ministro Balls si è detto «orgoglioso che il governo e il dipartimento siano stati fermi su questa strada. Il nostro punto di vista è che ogni scuola debba mettere in pratica azioni chiare contro ogni forma di bullismo, incluso quello a sfondo omofobico».

30 gennaio 2008

DISCORSO PREPARATO PER L’UNIVERSITA’ LA SAPIENZA

SI CREDE DI FARE COSA GRADITA AI SOCI PRESENTANDO IL DISCORSO CHE IL PAPA AVREBBE TENUTO ALL’UNIVERSITA’ ROMANA

ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE

Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!

È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della “Sapienza – Università di Roma” in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un “nuovo umanesimo per il terzo millennio”.

Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università “Sapienza”, l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la “Sapienza” era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.

Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola “vescovo”–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a “sorvegliante”, già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.

Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi “ragionevole”? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione “pubblica”, vede tuttavia nella loro ragione “non pubblica” almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.

Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: “Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?” (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.

È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come “arte” che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa “forma ragionevole” egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un “processo di argomentazione sensibile alla verità” (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico “processo di argomentazione” sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla “ragione pubblica”, come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il “sì” alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta “Facoltà degli artisti”, fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione e senza separazione”. “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una “comprehensive religious doctrine” nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.

Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.

Dal Vaticano, 17 gennaio 2008

MORATORIA ANCHE SULL’ABORTO?

PRIMA CHE SI SCATENI ANCORA UNA GUERRA IDEOLOGICA IN ITALIA, RIPORTIAMO UNA PRECISAZIONE E UNA INFORMAZIONE.
SPERIAMO DI SUSCITARE UN SERENO DIBATTITO SULL’ARGOMENTO.

In Italia occorre applicare la legge 194 sull’aborto in senso
coerente alla sua prima finalità, che è quella della prevenzione
dell’interruzione di gravidanza.

Inoltre occorre ripensare alcuni passaggi della stessa normativa in
considerazione dei progressi scientifici, terapeutici e diagnostici
compiuti negli ultimi trent’anni: il cardinale Camillo Ruini,
vicario di Roma, è intervenuto così nel dibattito relativo alla legge
194, nato anche in seguito a una campagna per la moratoria
dell’aborto lanciata dal quotidiano “Il Foglio”.

“Credo – ha affermato il cardinale in un’intervista concessa il 31
dicembre al Tg5 – che dopo il risultato felice ottenuto riguardo alla
pena di morte fosse molto logico richiamare il tema dell’aborto e
chiedere una moratoria, quantomeno per stimolare, risvegliare le
coscienze di tutti, per aiutare a rendersi conto che il bambino in
seno alla madre è davvero un essere umano e che la sua soppressione è
inevitabilmente la soppressione di un essere umano. In secondo luogo –
ha detto ancora Ruini – si può sperare che da questa moratoria venga
anche uno stimolo per l’Italia, quantomeno per applicare
integralmente la legge sull’aborto che dice di essere legge che
intende difendere la vita, quindi applicare questa legge in quelle
parti che davvero possono essere di difesa della vita e forse, a
trent’anni ormai dalla legge, aggiornarla al progresso scientifico
che ad esempio ha fatto fare grandi passi avanti riguardo alla
sopravvivenza dei bambini prematuri. Diventa veramente inammissibile –
ha concluso il cardinale – procedere all’aborto a una età del feto
nella quale egli potrebbe vivere anche da solo”.

La campagna per la moratoria dell’aborto lanciata dal quotidiano
diretto da Giuliano Ferrara, è partita il 21 dicembre, quando sulle
colonne del giornale è apparso l’annuncio di un digiuno (ma con
assunzione di liquidi) da rispettare a partire dalla vigilia di
Natale fino al primo giorno dell’anno nuovo, al fine di destinare il
denaro così risparmiato al movimento per la vita e ai centri di
assistenza che lavorano contro l’aborto. Il giorno precedente il
cardinale Renato Raffaele Martino, nel corso di una intervista
concessa a “L’Osservatore Romano” in merito alla moratoria della pena
di morte, aveva spiegato che “i cattolici non considerano il diritto
alla vita trattabile caso per caso o scomponibile”. E, aveva aggiunto
il cardinale, presidente dei Pontifici Consigli della Giustizia e
della Pace e della Pastorale per i Migranti e gli
Itineranti, “l’esempio più evidente è quello dei milioni e milioni di
uccisioni di esseri certamente innocenti, i bambini non nati”.

(©L’Osservatore Romano – 2-3 gennaio 2008)


RIPORTIAMO DA CORRIERE DELLA SERA
LINEE-GUIDA A CONFRONTO
Aborto: le indicazioni per i casi-limite
In quattro documenti gli orientamenti degli esperti: dall’eutanasia alla rianimazione del feto

ROMA – Cosa fare quando un feto, dopo un intervento di interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), nasce vivo? La legge 194 afferma che in presenza di segni vitali il piccolo va rianimato.
In quattro documenti, gli orientamenti degli esperti: si passa dalla posizione drastica dei medici olandesi, favorevoli alla eutanasia nei casi più gravi, a quella degli esperti italiani, secondo i quali nell’immediato il feto va rianimato e poi, in base alle sue condizioni, si decide se procedere solo a cure compassionevoli.

DOCUMENTO SOCIETÀ SCIENTIFICHE: STOP CURE A TROPPO PREMATURI – Astensione dalle cure intensive per i nati troppo prematuri, ovvero dalla 22/ma alla 24/ma settimana, per i quali le chances di sopravvivenza sono bassissime e i trattamenti si configurerebbero come un accanimento terapeutico. È l’indicazione contenuta nel documento messo a punto nel 2006 da nove società scientifiche, l’ordine dei medici della toscana e il comitato di bioetica regionale. La premessa è una fredda statistica: il 30-35% dei neonati prematuri, di 22, 23 o 24 settimane di gestazione, muore in sala parto; il 45% circa viene sottoposto a cure intensive e muore durante la terapia, la sopravvivenza è del 25%, ma il 95% dei sopravvissuti riporta gravi handicap cerebrali. In Italia, dove ogni anno nascono circa 600 mila bambini, quelli di 22 settimane sono lo 0,60 per mille, di 23 lo 0,55 per mille e quelli di 25 lo 0,50; in totale i molto prematuri sono l’ 1,65 per mille.

LINEE GUIDA NEONATOLOGI CATTOLICA, NO ACCANIMENTO – Nel 2006, i neonatologi e il Centro di bioetica dell’Università Cattolica di Roma mettono a punto delle «linee guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica». In caso di età gestazionale incerta, l’indicazione è di rianimare il feto vitale «fatta salva la possibilità di rinunciare agli interventi successivi se c’è una situazione di incompatibilità con la vita». Sotto le 22 settimane, le linee guida prevedono l’astensione da intubazione e ventilazione e il trattamento con sole cure palliative e analgesici; per feti vitali a 23 e 24 settimane si prevedono intubazione, ventilazione e rianimazione cardiocircolatoria.

PROTOCOLLO DI GRONINGEN, EUTANASIA IN CASI INCURABILI – Nel 2004, in Olanda si applica il cosiddetto protocollo di Groningen: è prevista l’interruzione della vita di bambini sotto i 12 anni, inclusi neonati, con malattie incurabili e che provocano sofferenze «intollerabili».

CODICE MANGIAGALLI, ABORTO SOTTO 22 SETTIMANE -Nel 2004, la Clinica Mangiagalli di Milano emana una «raccomandazione» interna affinchè si evitino gli aborti terapeutici dopo la 22/a settimana di gestazione.

02 gennaio 2008

MA E’ POSSIBILE CHE NEI MASS MEDIA

E PARTICOLARMENTE NEI TG CI SIA POSTO ESCLUSIVAMENTE O QUASI SOLO PER LE NOTIZIE DI MORTI, UCCISIONI O COMUNQUE NEGATIVE?
FORSE E’ UNA QUESTIONE CULTURALE SIA DEI RESPONSABILI DEI MASS MEDIA COME ANCHE DELLA GENTE CHE SEGUE ED E’ SEGUITA DAL GIORNALISMO.

CHI NON LAVORA NEPPURE MANGI

APRIAMO DISCUSSIONE SUL TEMA DI QUESTA LETTERA INVIATA AI SOCI IL 30 NOVEMBRE 2007

Carissimi/e,
voglio raccontarvi di me parecchi anni fa. Ero studente di filosofia in San Damiano di Assisi ed il mio impegno nella precisione era tanto che giunsi a pormi in modo serio il problema del collegamento fra lavorare e mangiare. Ricordo che molte volte, davanti al piatto del pranzo, restavo incerto ed addirittura angosciato. Il problema era questo: avevo diritto di mangiare non avendo studiato o lavorato a sufficienza in quel giorno? Può sembrare una sciocchezza, ma la cosa per me era seria.
Io certe volte saltavo il pranzo o parte di esso, come potevo senza farmene accorgere.
Ai giovani capita di poltrire e non ne faccio scandalo, ma io distinguevo bene il giorno di vacanza, il momento eccezionale, da quello in cui avrei dovuto compiere il mio dovere. E’ vero, a volte per riparare la pigrizia nello studio, facevo qualche lavoretto a beneficio del gruppo, ma non sempre.
Questo stato d’animo angosciato mi durò un po’ di anni finché la saggezza di un direttore spirituale riequilibrò il mio sentire.
E ora voi vi domanderete perché ho raccontato questo. L’ho fatto perché, riflettendo sul tema della pace nei riguardi di quel che accade spesso nel nostro mondo occidentale, mi son fatto cosciente che tanta conflittualità nasce proprio dalla incapacità di valutare quale sia il legame che ci dovrebbe essere tra lavoro e cose che ti puoi permettere. Soffermiamoci a considerare i tanti figli di papà che pensano prevalentemente o solo al divertimento; a quanti usurpano ricchezza a chi lavora; a quanti confondono il posto di lavoro col posto di stipendio; a quelli che fanno del ricatto, dell’imbroglio o della questua la fonte del loro mantenimento o della loro ricchezza. E se vogliamo, pensiamo anche a coloro che rifiutano un lavoro perché umile; che scelgono un corso di laurea di poco impegno aumentando la folla dei futuri disoccupati… e tante altre di queste cose.
Pensiamo anche a fare noi un esame di coscienza sulla nostra vita.
Tutto questo mi porta a vedere quanto fosse nel giusto san Paolo che esclamava il famoso: chi non lavora neppure mangi! (cfr. II Tess.3,10).
E vedo come il non capire la differenza che passa tra diritti e doveri; tra lavoro e guadagno, possa diventare fonte di conflitto. Mi domando allora come porre un freno a tanta incoscienza e così generare più pace nella società.
A chi ha bisogno è meglio dare il pesce o la canna per pescare?
La pace può nascere anche da qui.

QUESTA BENEDETTA SCUOLA LIBERA

L’Agesc: le casse pubbliche risparmiano 6 miliardi di euro.

Un risparmio di sei miliardi e 200 milioni di euro. A tanto ammonta, secondo un dossier realizzato dall’Associazione genitori delle scuole cattoliche (Agesc), il «mancato esborso» dalle casse dello Stato in campo educativo, dovuto proprio alla presenza degli istituti paritari.
Un costo che lo Stato dovrebbe accollarsi nteramente «se le nostre scuole dovessero improvvisamente chiudere e il milione di studenti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, si scrivesse negli istituti statali», sottolinea Maria Grazia Colombo, presidente nazionale dell’Agesc.

Cifre che stonano rispetto alle incredibili accuse di presunti favori economici verso la scuola paritaria, quella cattolica in particolare.
«Abbiamo preso in esame gli stanziamenti fatti per la paritaria dal 1996 al 2006 – spiega ancora la presidente –, dunque con la copertura di due legislature con governi di diverso colore. I dati dimostrano che l’operato delle diverse maggioranze succedutesi al governo del Paese è stato ampiamente insufficiente».

La situazione di partenza vedeva due capitoli di spesa nel 1996: uno per le scuole materne (intorno ai 100 milioni di euro) e uno per le elementari parificate (una trentina di milioni di euro), per uno stanziamento totale di circa 134 milioni.
Nel 2000 venne approvata la legge numero 62 sulla parità scolastica, che aumentò l’importo complessivo di 179 milioni di euro, di cui 144,6 per le materne, 30,9 per le elementari e 3,6 per l’integrazione degli alunni disabili.
Nella Finanziaria 2001, l’ultima del governo di centrosinistra, i contributi arrivarono a 473 milioni di euro, di cui 349 per le materne, 118 per le elementari, 5,5 alle secondarie e 3,6 per l’integrazione dei disabili.
Dopo aver governato per i successivi cinque anni, il centrodestra portò il bilancio complessivo (Finanziaria 2006) a 532 milioni di euro (più 59). Cifra salita, nell’ultima Finanziaria 2007 del governo Prodi a 566,8 milioni con la seguente distribuzione: 355 alle materne, 160 alle elementari, 6,9 alle secondarie, 10 per l’integrazione dell’handicap, 4,5 per la legge 440 sulle secondarie paritarie e 30 del bonus dei genitori per l’anno scolastico 2005/06.

E proprio partendo dalle cifre 2007, il dossier dell’Agesc fa i conti in tasca allo Stato.
A cominciare da quanto spende per ogni singolo studente.
Si scopre così che un bambino della materna statale costa 6.116 euro, un alunno della primaria 7.366, uno studente delle medie 7.688 e uno
delle superiori 8.108.
Nello stesso tempo lo Stato, attraverso i contributi erogati in bilancio, spende per uno studente iscritto alla paritaria: 584 euro alla materna, 866 alla primaria, 106 alla media e 51 euro alle superiori.

Facile a questo punto fare la differenza tra le due cifre, tenendo conto che stiamo parlando di scuole appartenenti all’unico sistema scolastico pubblico integrato, come recita l’articolo 1 della legge 62 del 2000.
L’Agesc ha così calcolato che per un bambino iscritto alla materna paritaria lo Stato risparmia 5.532 euro, che diventano 6.500 alle elementari, 7.582 alle medie e raggiungono gli 8.057 alle superiori.

Ma i «contabili» dell’associazione sono andati oltre quantificando anche il risparmio complessivo che ottiene lo Stato non gestendo il milione di studenti degli istituti paritari: 3,436 miliardi di euro alle materne, 1,202 miliardi nelle elementari, 496 milioni per le medie e 1,110 miliardi alle superiori.
Totale: 6 miliardi e 245 milioni di euro che le casse dello Stato non devono sborsare.
Sei miliardi di risparmio a fronte di un investimento di 566 milioni.
Le cifre parlano da sole, «evidenziando la convenienza della nostra esistenza per lo Stato – commenta la presidente dell’Agesc –.
Un’evidenza così chiara che non si comprende come non passi l’idea che occorra evitare l’estinzione di questa realtà educativa », se non altro per motivi economici.

E dopo aver fatto legittimamente i conti in tasca allo Stato, l’Agesc passa alla fase propositiva, rivolgendo un appello bipartisan: «Offriamo il nostro contributo affinché possa costituirsi una ampia maggioranza politica trasversale fra gli schieramenti, capace di fornire risposte concrete alle problematiche delle scuole paritarie e delle famiglie che le scelgono per i propri figli».

Un auspicio che si concretizza nella richiesta di un «incremento di 233,5 milioni di euro, in modo da portare l’investimento complessivo in Finanziaria 2008 a 800 milioni di euro, di cui 440 alle materne, 250 alle elementari, 40 a medie e superiori e 70 all’integrazione per i disabili».
Un aumento che corrisponde «al 3,7% di quanto lo Stato risparmia con la mancata frequenza delle scuole statali da parte degli studenti delle scuole paritarie».
Del resto, sottolinea il dossier dell’Agesc, «le risorse destinate alle materne sono ferme, se non addirittura diminuite, già da quattro esercizi finanziari, a fronte di un incremento dell’utenza».
Nelle elementari «occorre superare l’esiguità dei fondi che porta ad avere istituti paritari con convenzioni e altri privi, proprio perché i fondi non coprono tutte le realtà».
Una scarsità di fondi ancora più evidente nel ciclo superiore, «dove bisogna passare dagli attuali 7 ad almeno 40 milioni per assegnare davvero fondi a tutti gli istituti».
Spetta ora al mondo politico e al governo dare una risposta.

INCREDIBILE MA VERO. COSTI PER LO STATO:
– un bambino della materna statale 6.116 euro, 584 euro se alla paritaria;
– un alunno della primaria statale 7.366 euro, 866 euro se della paritaria;
– uno studente delle medie statali 7.688 euro, 106 euro se di una paritaria;
– uno delle superiori statali 8.108 euro, 51 euro se in una paritaria.

RISARCIMENTO

Si è aperta una discussione sul seguente concetto: per diminuire la delinquenza sarebbe opportuno introdurre in maniera forte ed assoluta, il principio del RISARCIMENTO. Cioè, prima di ogni pena per i reati, esigere il risarcimento assoluto per i danni apportati in modo che nessuno possa godere mai in vita dei beni eventualmente rubati o danneggiati.Ciò permetterebbe l’abbassamento o la cancellazione del carcere che è pena non accettabile e costosa umanamente ed economicamente quando non c’è necessità di proteggere gli innocenti.

Nella nostra attuale legislazione, nel suo spirito, sembra esistere solo l’attenzione a chi delinque mentre la vittima sembra non avere alcun diritto. E’ come dire: sei stato colpito, ora leccati le ferite, mentre sembra esserci tutta una attenzione a chi delinque, anche nella protezione.

Risarcimento pertanto vuol dire capovolgere l’attenzione e rendere garanzia alla vittima prima che al delinquente.

Si chiedono pareri di esperti in diritto ed una eventuale mobilitazione da parte di tutti, ma particolarmente da parte di giuristi chiamati a far gruppo.

Attendiamo risposte, considerazioni e disponibilità.

COME SUPERARE LA CORRUZIONE

Dopo le ultime newsletter parecchi mi chiedono come poter superare la corruzione così forte specialmente in politica (riferimenti al libro LA CASTA) e come attivarsi per un risanamento globale senza il solito moralismo, ma per il beneficio della nostra società e per aiutare un cammino verso una serena convivenza.

Attendo proposte senza moralismi, ma con praticità di contenuti.

Grazie.

GM 

Ecologia

Newsletter 6 luglio 2007

L’ECOLOGIA

Carissimi/e,

                  perché  sollecitato da alcuni di voi, anticipo qui una riflessione sull’ecologia che già avevo in animo di inviarvi. Come inizio, però, devo dirvi che noi di Assisi Pax chiamiamo Pace con il Creato quella disciplina che comunemente va sotto il nome di ecologia. Perché?

Il termine Pace è in sintonia col nostro pensiero generale che si rifà al tipo di rapporto positivo che noi abbiamo con ogni realtà quando parliamo di civiltà di pace. Il termine Creato vuole sottolineare, a differenza del termine natura, l’opera di Dio e quindi il riferimento a Dio.

In questo tempo che noi viviamo, c’è dibattito ampio sul tema della natura (o creato), poiché gli scienziati ci dicono e noi costatiamo la tragedia che sta crescendo nel mondo a motivo dell’abuso che facciamo di ogni forma di vita ed esistenza.

Allora, se vogliamo proporre agli altri la nostra visione di civiltà di pace, dobbiamo essere spediti e decisi a vivere noi, e ad indicare agli altri, quale sia la nostra visione.

Prima di tutto affermiamo che Pace con il Creato intende una posizione non egoistica. Abitualmente si parla di ecologia perché si ha paura di perdere qualcosa. Non per amore. Infatti ci viene insegnata l’attenzione alla natura per evitare che essa peggiori; attenti agli animali perché in via di estinzione; parchi nell’uso delle fonti energetiche per evitare catastrofi. Tutto vero, ma così parliamo per egoismo e non per amore. I legami del creato invece sono legami di amore. Noi abbiamo un rapporto di amore e rispetto per il creato e per questo siamo chiamati a porre attenzione al nostro abitare il mondo.

Prendiamo dalla Bibbia un concetto sano: Il concetto che ci viene proposto è quello di un dominio inteso come coltivare e custodire il che vuol dire: uso e rispetto. Qui è la vera ecologia.