La giustizia riparativa non è buonista (di Benito Melchionna)

1.- La pena e i suoi significati

L’essenza della pena (dal greco poiné, pagare) consiste nella punizione o sanzione quale diretta conseguenza della violazione di regole imposte dalla legge, dalla consuetudine e dalle convenzioni.

Nella sua più ampia accezione, oltre alla sofferenza fisica (il corpo imprigionato, sevizie, torture…), civile e morale (persecuzioni, espropriazione di beni, esclusione, disonore…), sul piano spirituale la pena riguarda anche il castigo-dannazione dell’anima in espiazione di peccati commessi con violazione di precetti religiosi, anche se nella nostra era desacralizzata pochi (almeno da noi) ormai scommettono sull’eternità.

Sul piano pratico la sofferenza inflitta attraverso il castigo rappresenta la risposta con la quale la parte-persona lesa intende reagire, per una specie di vendetta, ritorsione o rappresaglia (proporzionata?) rispetto al male provocato dal torto subìto.

Perciò, magari andando oltre rispetto alle già contrastanti valutazioni dei tradizionali istituti della legittima difesa e dello stato di necessità, il soggetto danneggiato dalla violenza e dall’offesa si è nel passato ritenuto in qualche modo legittimato a reagire nel solco della primordiale legge del taglione (occhio per occhio…).

Ciò almeno fino a quando, con la nascita dell’organizzazione statuale e poi con l’affermarsi del moderno Stato di diritto, la vendetta privata ha progressivamente ceduto il passo alla pena legale applicata – al fine di ristabilire il patto sociale tradito  – da tribunali pubblici e imparziali.

Sul piano giuridico ed etico la risposta affidata alle diverse forme di castigo trova il suo fondamento nella responsabilità e più precisamente nel concetto di colpa. Quest’ultima, a sua volta, si configura e si modella in base al grado di consapevolezza e quindi di adesione del colpevole all’azione/omissione antigiuridica.

L’art 43 cod. pen. distingue perciò il dolo, che consiste nell’intenzione delittuosa, dalla colpa in senso proprio, che sussiste quando l’evento-reato, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia (colpa generica), ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica).

La giurisprudenza ha poi costruito l’ipotesi di imputabilità per dolo eventuale (o colpa cosciente) quale tertium genus o via di mezzo tra dolo e colpa.

Sotto il profilo psicologico si può inoltre dire che la cosiddetta pena… del vivere ricomprenda il dolore, il tormento, il patimento, la fatica e l’angoscia che di fatto segnano la fragile condizione umana in questa valle di lacrime.

Tuttavia, qualche alternativa alla pena dell’inquietudine esistenziale si ritrova nel rapporto di solidarietà che lega ogni singolo individuo (indivisibile) al più o meno solido consorzio sociale.

Per questo la pena è anche intesa come pietà (derivata dalla pietas romana) per le sofferenze altrui; diciamo allora che ci muoviamo a pietà e a compassione per i deboli e i diseredati disseminati sulla terra.

In realtà, noi non siamo solo per innata tendenza gli aristotelici “animali sociali”, ma in quanto cristiani siamo altresì chiamati a dispensare la caritas, l’amore per il prossimo, valore introno al quale si muove l’intero rivoluzionario messaggio evangelico.

Bisogna però prendere atto che l’istinto di solidarietà e lo spirito di carità sembrano sbriciolarsi nell’attuale barbarie e nel contesto contagioso della omologazione verso l’indifferenza che giunge fino al menefreghismo.

Questo comporta che le nostre menti e i nostri gesti, svincolati da ogni finalità etica, siano insidiati da una specie di presente eterno, arrogante e conformista.

Di conseguenza, pochi conoscono e ancor meno praticano la mitezza, il per-dono e la misericordia quali necessari strumenti di pace.

Proprio alla virtù della misericordia Papa Francesco, forse anche per cercare di svelenire l’ambiente di Casa, ha dedicato il Giubileo straordinario per l’anno 2016.

Ma servirà questo evento a illuminare chi sfregia il Dio della misericordia continuando a scannare i propri simili in Suo nome, come ci ha dimostrato da ultimo (…) il massacro di Parigi del 13 novembre 2015.

2.- La pena “legale”

Il principio di legalità che dà forma al nostro ordinamento giuridico trova puntuale applicazione in specie nel sistema penale.

Perciò l’art. 1 cod. pen. prescrive espressamente che “nessuno può essere punito con pene che non siano stabilite dalla legge”. Questo vincolo è poi in linea con il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Gli stessi precetti sono peraltro posti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (legge n. 848/1955) che, oltre a stabilire che “ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza” (art. 5) e “ad un equo processo” (art. 6), ribadisce il principio per cui “nessuna pena senza legge” (art. 7).

A sua volta, l’art. 27 della nostra Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e che le stesse pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Del resto, anche il vigente codice penale, risalente al 1930 (con successivi inserimenti), prevede diverse ipotesi di reato o di aggravanti in tema di delitti contro la libertà personale (artt. 605-609 decies).

Particolarmente pertinente al nostro tema è l’art 608 c.p. che punisce il pubblico ufficiale che, “con abuso di autorità”, “sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la custodia, anche temporanea”.

In via generale, inoltre, lo stesso codice penale, nel quadro del tradizionale (oggi molto svigorito e contestato) ius corrigendi, cioè il diritto ad educare anche attraverso rimproveri e castighi, punisce tra l’altro “chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia…” (art. 571 c.p.).

Si può infine richiamare l’art 572 c.p. che sanziona più severamente chiunque “maltratta” i soggetti elencati nell’articolo precedente.

Dai citati principi, sebbene essi siano in gran parte traditi nei fatti a causa di eccessi di opposta natura, discende che:

 –   ogni trattamento penitenziario o comunque restrittivo si deve uniformare al sentimento e alla sensibilità che portano ciascuno di noi verso la solidarietà, la pietà e il rispetto della dignità e dei diritti inviolabili dell’uomo, riconosciuti e garantiti a tutti sia come singoli sia quali membri della collettività (art. 2 Cost.).

Pertanto la visione umanistica della giustizia implica che il giudice consideri e giudichi chi non ha più “le ali della libertà” come un cittadino uguale al giudice stesso “nei diritti e nella dignità”.

Ebbene l’art. 13 Cost. dichiara “inviolabile” la libertà personale; la quale non è però intesa come il “fare ciò che mi piace”, ma piuttosto scegliere senza costrizioni e con responsabilità ciò che è bene e rispettoso di me e degli altri.

In ogni caso, in base alla stessa norma costituzionale, “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. È dunque sanzionato – come si è detto – qualsiasi abuso commesso con procedure e comportamenti inumani o degradanti.

In tale contesto non possono ovviamente trovare giustificazione la tortura (espressamente vietata dall’art. 3 della Convenzione dei diritti umani) e la pena di morte. Si tratta infatti di punizioni messe in discussione sin dal 1764 da Cesare Beccaria con il suo fortunato libretto “Dei delitti e delle pene”.

Dunque, la pena di morte, abrogata per la prima volta al mondo da una legge del 1786 del Granducato di Toscana, è stata definitivamente soppressa in Italia nel 1944 e poi nel 2007 anche per “i casi previsti dalle leggi militari di guerra”.

Ciò non toglie però che qua e là ancora oggi diversi Paesi, pur democratici, continuino a praticare la primordiale pena capitale.

Al contrario nella nostra più evoluta cultura giuridica tende ad accreditarsi il rifiuto finanche dell’ergastolo, pena “perpetua” paragonata a una pena di morte occulta, così come l’abusata carcerazione preventiva (o custodia cautelare) si risolve spesso in una pena “occulta”.

Peraltro la condanna con fine pena “mai” appare ragionevolmente incompatibile con la “rieducazione” del condannato, nella prospettiva del futuro reinserimento sociale del reo, secondo il progetto di cui al richiamato art. 27 Cost.;

  –   la  finalizzazione delle pene alla “rieducazione” del condannato porta ad assegnare alle Istituzioni penitenziarie il compito di rimediare e correggere – con trattamenti possibilmente personalizzati – la manchevolezza o il deficit  di adesione alla legalità manifestati dal reo.

Si tratta certamente di una missione complessa e difficile, che richiede un contesto carcerario attrezzato con strutture “avanzate” e un capitale umano di operatori qualificati dotati di una solida formazione “socratica”.

Non a caso il pur enfatico motto della polizia penitenziaria “vigilando redimere” sottintende in sintesi la necessità di armonizzare tra loro il ruolo custodiale con le finalità rieducative.

Da un lato dunque il compito di vegliare per imporre anzitutto la disciplina interna e il rispetto dei regolamenti, allo scopo di rieducare alla vita, di impedire disordini conflittuali nella convivenza “ristretta” ed evitare fughe-evasioni; dall’altro il magistero volto a riscattare dal debito e dal vulnus (ferita) sociale, riabilitando chi ha scontato la pena come a purificarsi dalla colpa.

Appunto per questa finalità il peso e la centralità della funzione rieducativa della pena va assumendo una importanza sempre più determinante anche nelle valutazioni e nelle interpretazioni della giurisprudenza.

Per cui, ad esempio, la Corte di Cassazione – V Sezione penale, con sentenza n. 44897 del 9 novembre 2015, ha annullato di iniziativa – superando la tradizionale intangibilità del giudicato (vedi sul punto Cass. Sezioni Unite, sent. 18821/2014)– una pena ritenuta “illegale” perché inflitta in violazione del principio del giusto processo (art. 111 Cost.), e in particolare perché diversa per specie e quantità rispetto ai confini “legali” fissati, a presidio della libertà, nel citato art. 1 c.p.

 3.- Garanzie individuali e difesa sociale

Tutte le civiltà sono sempre state assillate dall’interrogativo circa la vera natura e la funzione pratica della pena concepita come castigo conseguente alla disobbedienza  e alle varie manifestazioni della devianza.

Questa domanda fondamentale resta tuttavia tuttora priva di risposte plausibili e condivise.

Per quanto concerne in particolare la pretesa punitiva dello Stato, quale risposta legale social-preventiva rispetto alla criminalità, tutto sommato non si è trovato niente di più sbrigativo che inquadrarla nella teoria della repressione nuda e cruda.

Ciò vale, non tanto paradossalmente, anche per la nostra era di boria tecnologica, la quale – pur essendo caratterizzata da rivoluzionario sviluppo – tendenzialmente indulge alla pigrizia, all’individualismo e alla superficialità emotiva più o meno forcaiola.

Questo spiega perché oggi sia alquanto diffuso, tra i cosiddetti benpensanti che presumono di non essere neppure sfiorati da qualsiasi illegalità, il sentimento basato sull’imperativo della sicurezza assoluta e sul primato della difesa sociale.

Detta ideologia, che parte dal rifiuto di qualsiasi rischio, vorrebbe ogni criminale segregato in carcere…buttando via la chiave!

A ben riflettere però questa visione semplicistica, di impronta conservatrice, nel subordinare la reintegrazione dell’ordine violato alle suggestioni della paura e del pregiudizio, non dà risposta alla domanda se il carcere sia una modalità riabilitativa davvero efficace.

La stessa visione inoltre non considera che, nella complessità delle cose, c’è Caino e Caino, per cui si va dal terrorista sanguinario al ladro del supermercato.

Del resto, le leggi oppressive e autoritarie non appaiono di per sé in grado di dare qualche soluzione accettabile alle gravi questioni che, ancor più nel nostro smarrito mondo globalizzato, agitano il dibattito intorno al male e alla diffusione delle devianze.

Non sembra dunque che il giustizialismo si sia finora rivelato argine e rimedio efficace alla delinquenza, soprattutto perché si affida alla legge della forza piuttosto che alla forza (ragionevole) della legge.

Peraltro, l’uso brutale della forza, trascura la lezione della storia, per cui la pace (compresa la tranquillità sociale) non si conquista con la guerra, che riproduce sempre se stessa in una spirale senza fine.

Dall’altra parte, il garantismo… a prescindere, che fa leva sul primato e sulla difesa ad oltranza delle libertà e delle garanzie individuali, viene tacciato di essere irresponsabile e lassista, privo cioè del necessario rigore e della fermezza dovuta nella inflessibile puntuale applicazione delle regole, in specie di fronte alle situazioni di emergenza.

Certamente, la concezione che invoca la spada della giustizia piuttosto che la sua bilancia, evoca in qualche modo i nefasti della citata arcaica pena del taglione e la legge del contrappasso (patire il contrario del male fatto) di dantesca memoria.

Tanto più che una giustizia spiccia dalla bilancia sbilenca e a “tolleranza zero”, se la prende facilmente, con rigore implacabile, con i poveracci indifesi, a dispetto della certezza egualitaria che dovrebbe essere garantita dal diritto e dalla giustizia giusta.

È altrettanto vero però che il garantismo, imperante da quando è entrato nel vocabolario del politicamente corretto, si riduce quasi sempre a una sorta di comoda facciata, inneggiante con ipocrisia alla funzione di garanzia per tutti e di trasparenza  delle regole e delle procedure codicistiche.

In realtà, al garantismo intransigente reclamato per sé e per i propri amici o interessi, corrisponde spesso il più spudorato giustizialismo verso gli altri, in linea con il detto per cui “la legge per i nemici si applica, per gli amici si interpreta”.

Se è vero dunque che la civiltà di un popolo si misura dal sistema delle pene, vuol dire che noi siamo messi…non proprio bene.

Soprattutto con riguardo alla realtà della esecuzione penale, la quale appare ancora impostata sul criterio – teorizzato ancora da Kant e da Hegel – della sofferenza di un male (carcerazione, pene pecuniarie, sanzioni interdittive, ecc.), in risposta all’equilibrio sociale violato da chi delinque.

Sul piano teorico, invece, ha fatto scuola la concezione illuminista del Beccaria, il quale per primo era giunto a desacralizzare il diritto scindendo l’idea giuridica del reato dal concetto etico-religioso del peccato.

La dottrina laica ha potuto così elaborare diverse teorie volte a meglio focalizzare il più genuino significato della pena criminale, nel tentativo di far convivere libertà (garantismo) e sicurezza (difesa sociale).

Si è passati perciò dalla primitiva pena puramente repressiva, a quella altrettanto rude della giustizia retributiva. Si sono successivamente studiate le nuove strade della pena pareggiatrice e della giustizia recuperatoria, per finire alla pena riparatrice.

In ogni caso è dimostrato che, allo scopo di essere credibile quale strumento atto ad evitare la recidiva, cioè la ricaduta nell’illecito, qualsiasi modello di punizione che voglia andare oltre il semplice diritto di punire, deve soprattutto possedere un grado “proporzionato” di deterrenza, di dissuasione preventiva efficace e di concreta attitudine recuperatoria-riparatrice.

4.- Dalla giustizia “mite” alla decarcerizzazione

Nel Critone, uno dei primi dialoghi di Platone, Socrate enuncia la sua tesi secondo cui non bisogna mai far male a nessuno e in particolare non bisogna mai rispondere al male con il male; perciò attenderà serenamente l’esecuzione della sua condanna, sebbene ingiusta, e argomenta all’amico Critone, che cerca in tutti i modi di convincerlo ad evadere, che questo non sarebbe giusto, anche se i più l’approverebbero.

Ma il carcere (dal latino, recinto; poi prigione, da prendere; poi galera, dal rematore forzato nelle galee; ora casa …) serve davvero a ristabilire l’integrità della comunità sacrificando la libertà di chi ha compromesso la convivenza civile che si regge sul rispetto delle regole?

Socrate, modello di laicità dell’etica occidentale, risponde sì e ancora oggi può insegnarci che:

–  da un lato, il giustificazionismo di comodo porta inevitabilmente ad allentare la tensione etica generale, oggi ridotta in frantumi da comportamenti bonari, tolleranti in eccesso e perciò deresponsabilizzanti: basta vedere il livello di sciatteria e di volgarità di moda non solo in strada, in famiglia, a scuola, nei contesti lavorativi e soprattutto in tv, ma anche in ambienti curialeschi quali le aule parlamentari, i luoghi di culto, le corti di giustizia, gli uffici pubblici…

Tuttavia, la tendenza a giustificare tutto col buonismo (perversione della parola buono) appare messa in discussione dalle attuali più acute emergenze, per cui:

– la persistente crisi economica e quella relativa alla sostenibilità ambientale impongono di ripensare il modello consumistico e la cultura dello spreco e dello scarto (persone comprese);

–   il fenomeno incontenibile della immigrazione clandestina e/o di necessità esige la revisione dei criteri di accoglienza e di integrazione in tutti gli spazi comunitari;

–  l’offensiva del terrore islamista, riportandoci in casa la barbarie, ci costringe a rivedere i nostri “liberi” stili di vita e a convivere con la nuova fragilità; per questo le più recenti rilevazioni individuano nella criminalità (in specie terroristica e predatoria) il principale elemento di paura e di turbamento della popolazione.

Tuttavia, a prescindere dalle condotte che mettono a rischio la sicurezza collettiva o altri valori primari, per le quali si reclama giustamente il pugno di ferro, è provato che per ogni illecito debba essere scelta la sanzione più adatta ed efficace.

A tal fine è anzitutto necessario decongestionare il carico di lavoro degli uffici giudiziari e sfoltire il disumano sovraffollamento carcerario, in ogni caso ridotto dai 68 mila detenuti al 31.12.2010 ai 52 mila al 30.9.2015, in risposta alle procedure di infrazione al riguardo avviate contro l’Italia dall’Unione europea.

Si va quindi rafforzando una politica di progressiva depenalizzazione dei reati minori o “bagatellari”, in ordine ai quali il carcere non è un deterrente, mentre lo è molto di più la sanzione amministrativa pecuniaria e/o interdittiva.

È infatti accertato che l’attuale sistema di esecuzione penale – inteso come oscura periferia esistenziale – non solo non redime nessuno, ma è tra i più costosi d’Europa, visto che paghiamo per ogni detenuto la bella cifra di 150 euro al giorno.

In questo ambito si colloca il progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario all’insegna della decarcerizzazione attraverso la ricerca di pene “non carcerarie”, le quali tuttavia non dovrebbero svilire la giusta pretesa punitiva e altresì le ragioni risarcitorie delle vittime dei reati.

In questa prospettiva non si può certo sostenere che la giustizia riparativa (restorative justice) sia più dolce o “buonista” rispetto a una giustizia di stampo retributivo, che si limita a condannare il colpevole a un certo periodo di segregazione (magari brutale), senza chiedergli più nulla oltre all’espiazione della pena.

La riparazione infatti richiede, in più, azioni concrete volte a eliminare, attenuare o compensare le conseguenze di un danno e di un’offesa.

In questo modo al recluso vengono prospettati un impegno positivo e l’opportunità di una “rottura instauratrice” rispetto al passato; egli potrà così avviare un faticoso percorso di recupero personale mirato al reinserimento nel normale tessuto sociale.

A questo scopo si renderà necessario incentivare soprattutto le politiche attive del lavoro, all’interno e all’esterno dei luoghi di esecuzione della pena, quale efficace antidoto alla recidiva; è infatti l’assenza di un percorso rieducativo che genera esclusione e riproduce delitti, mentre – nel 98% dei casi – chi esce dal carcere già inserito nel lavoro, nel carcere non torna più.

In conclusione, il dialogo e la comunicazione tra dentro e fuori sono strumenti essenziali che assegnano al carcere – che non può essere abolito secondo lo slogan di certe proposte – la sua specifica funzione rieducativa, favorendo il lavoro, la scuola, il diritto a esprimere la propria religiosità e a intraprendere il necessario finalistico processo di ri-assunzione di responsabilità.

Benito Melchionna – Procuratore emerito della Repubblica