PROGRESSO ECONOMICO EQUITA’ E DISUGUAGLIANZE (vecchia ricerca di G.P.)
Istituto Veritatis Splendor – Fondazione Cardinale Lercaro, Bologna
Gruppo di Ricerca biennale su “PROGRESSO ECONOMICO, EQUITA’ E DISUGUAGLIANZE. RIPENSARE LE INTERAZIONI TRA SVILUPPO, TUTELA DEI DIRITTI UMANI E PACE”
Responsabile della Ricerca: Prof. Ferruccio Marzano
Coordinatore del Sottogruppo n. 6 su “La pace: condizione e obiettivo dello sviluppo”: Gian Maria Polidoro
1. Premessa
Nel nostro sentire comune intendiamo la pace come una assenza di guerra; un periodo di quiete in cui le armi tacciono. E in qualche modo possiamo anche giustificare tale sensibilità alla luce delle tragedie di cui la storia umana è carica e che ancora adesso viviamo sia attraverso i mass media e sia attraverso la nostra stessa esperienza quando ci accorgiamo della tanta voglia di conflitto che affligge la nostra società.
Ma non è sufficiente pensare la pace come non-belligeranza. Forse proprio l’aver considerato la pace come non-belligeranza ci ha impedito di approfondire il tema della pace in modo da comprendere come essa possa essere qualcosa di molto più grande di una guerra sospesa o non dichiarata.
Sento che la pace ha in sé un contenuto di positività per cui essa, a volerla bene intendere, non è un interstizio fra due conflitti, ma una situazione permanente della nostra esistenza. Questo è il mio modo di intendere la pace e credo sia una prospettiva proponibile a tutti. Con questa visione applicata alla storia umana, credo che potremo fare molto cammino per un futuro che cambi lo svolgersi delle nostre varie civiltà umane.
E’ essa una ideologia? La domanda può esser lecita. Ho però una risposta da dare che penso possa illuminare la strada a chi ricerca la pace. Una risposta che ha inizio dalla considerazione degli strumenti di conoscenza di cui siamo dotati. Il nostro desiderio di vedere una pace che si concretizza in un cammino umano e non sia soltanto illusione, ci porta a tentare ogni possibilità di via nuova. Tentiamo questo cammino indagando la realtà con ogni mezzo buono.
Noi abbiamo illimitati canali di conoscenza per cui siamo chiamati ad utilizzarli il più possibile per una visione buona di quanto può essere oggetto della nostra indagine. Ogni realtà che si pone alla mia attenzione, posso conoscerla, come più sopra accennato, attraverso i vari strumenti di conoscenza a mia disposizione. Se, ad esempio, non tengo conto di uno dei nostri sensi, io percepisco molto meno del reale che mi si presenta e pertanto affermo che la mia conoscenza è incompleta o parziale. Ciò lo affermo perché sono cosciente di un senso che mi manca. Il fatto che noi abbiamo illimitati linguaggi quali la pittura, la musica, l’architettura, la scientificità, la passione…ci porta a considerare le varie angolazioni da cui possiamo apprendere il reale. Tra esse abbiamo anche il linguaggio religioso che, lo si voglia o meno, porta la sua buona dose di conoscenza. Questo è o dovrebbe essere un convincimento ormai pacifico.
Io qui affermo che ho qualcosa da dire la cui conoscenza mi è giunta attraverso il linguaggio religioso cui sono particolarmente dedicato.
L’esperienza religiosa ed il cristianesimo all’interno di essa, mi hanno condotto ad una visione della pace certamente degna di essere accolta o presa in grande considerazione.
Il concetto di pace di cui parlo ha origine dalla mia e nostra esperienza di cristiani; la sua applicazione alla concretezza storica però, come l’ho maturata nella mia riflessione, non ha caratteristiche confessionali.
Con il termine pace io intendo la somma di tutti i beni che il Cristo risorto ha ridonato all’umanità (teologicamente parlando il Cristo, con la sua resurrezione, ha ridato all’umanità la possibilità di un rientro nell’Eden o paradiso terrestre da cui era stato espulsa dopo il peccato dei progenitori) con aggiunto il non ancora del Regno che si viene facendo.
Tradotto in discorso non religioso possiamo dire che la pace contempla la realtà umana e la natura in una visione positiva della realtà. In altre parole si può affermare che la pace, che non è solo assenza di guerra, ci conduce ad una civilizzazione umana in cui al rapporto conflittuale (rapporto interumano ed intercreaturale) si sostituisce un rapporto positivo, collaborativo. Tale visione, a sua volta, si traduce in collaborazione, incontro, fiducia, alleanza, comunità.
Se la realtà è tale, come sopra accennato, tutto il sentire degli uomini e le attività umane vanno rivisitati alla luce della categoria della positività.
Per quanto attiene al presente lavoro di ricerca, si tratta di individuare come essa positività, introdotta con riferimento religioso, possa essere inserita dentro la tendenza attuale dell’essere umano e non umano allo scontro, allo sfruttamento dell’uomo e della natura, alla violenza e all’oppressione. Un tale inserimento darebbe la possibilità concreta di attuare quella pace che è positività, collaborazione, incontro, integrazione.
In altre parole si potrebbe proporre una civiltà di pace che tocchi tutti i rapporti interumani ed intercreaturali, compresi quelli economici che sembrano i più refrattari alla prospettiva. La civiltà (mi interessa qui premettere) è la somma delle tipologie di rapporti interpersonali ed intercreaturali.
Si tratta quindi di giungere ad affermare che la pace non solo è possibile, ma è conveniente. E’ una civiltà per cui vale la pena lavorare ed impegnarsi.
Facendo riferimento alla convenienza (economica in questo caso) si ipotizza una realtà economica che “punisca” economicamente quanti non operano in dimensione pace, valorizzando quelli che perseguono comportamenti collaborativi e cooperativi. Ogni civiltà, infatti, “punisce” chi agisce al contrario.
Ciò premesso, si tratta di portare avanti un discorso interdisciplinare tale che, partendo da un linguaggio religioso, possa giungere ad individuare percorsi concreti che conducano alla costruzione di pilastri atti a sostenere una “civiltà di pace”. La pace sarebbe allora una condizione costitutiva dell’essere e delle attività dello sviluppo umano. Ed entrerebbe a far parte a pieno titolo di tutto il lavoro che viene portato avanti da quanti si occupano dello sviluppo a livello mondiale. La pace non sarebbe più quella ciliegina di ornamento alla preoccupazione dello sviluppo mondiale, ma ne sarebbe la base solida su cui poggiare ogni possibilità di sviluppo. E’ mio impegno, infatti, lavorare perché si avverta a livello dei potenti che il tema della pace non è solo un escamotage politico per ingraziarsi le masse, ma una tematica con cui avere a che fare. Più o meno come si ha a che fare con la fornitura di energia o con le materie prime.
Si può facilmente comprendere, allora, che parlare di una civiltà di pace non è un semplice modo di dire, ma impegno verso una meta concreta. Si cesserebbe di fare pacifismo e in suo luogo si apprenderebbe come cultura e visione positiva delle relazioni interumane ed intercreaturali siano strumenti efficaci di pace.
Pertanto uno dei problemi di questo intervento sarà quello di un tentativo di tradurre in “linguaggio laico” pieno di concretezza quanto potrebbe sembrar facile dire solo a parole. Qui infatti risiede tutta la capacità di una visione di pace a divenire realtà concreta per tanti popoli diseredati del nostro mondo.
2. Lo sviluppo dei paesi poveri
Stando così le cose, lo sviluppo dei paesi poveri, per essere reale e duraturo, va ricercato all’interno di un discorso di positività, quale la civiltà della pace può dare. Ne consegue che i paesi ricchi possono aiutare i paesi ‘in via di sviluppo ’ tanto più quanto più si prodigano anche per la pace intesa come capacità di relazionarsi al positivo.
La pace così, come già detto più sopra, non sarà un bel condimento da mettere su un piatto di spaghetti o un optional per abbellire l’auto, ma punto fermo e necessario di un cammino verso la giustizia mondiale per coniugare pace e sviluppo socio-economico.
Chiedo scusa per questa i9nsistenza, ma l’esperienza mi ha insegnato ed ancora oggi mi insegna, che quanto sto affermando può a volte anche affascinare, ma molto difficilmente si ha capacità e fantasia di una applicazione pratica.
L’uscita dal sottosviluppo, l’otteniamo interagendo non nel solo campo economico, ma in tutti i campi dell’esistenza umana a cominciare da una visione pacifica della vita. Appare in questo modo la necessità della crescita culturale (e spirituale) della popolazione. E’ dunque mio convincimento che lo sviluppo si crea non solo con elargizioni economiche, ma con un processo innescato ad un sapiente intervento che favorisca la cultura matrice della pace. Quando nel quotidiano trovo il deprezzamento del lavoro culturale e un sovradimensionamento del contributo economico, non posso fare a meno di pensare ad un futuro di sviluppo monco e non duraturo.
Qui non si vuol dire che l’aiuto inviato ai paesi poveri sia cosa di secondo ordine. Si vuole però asserire che fermarsi all’obolo quale può essere quello che si invia alle missioni o contentarsi di una percentuale sul PIL nazionale con cui finanziare opportune iniziative, non è tutto. Certamente se noi consideriamo il sottosviluppo solo come un fatto puramente economico, e di trasmissione di un quantitativo di moneta, potremmo anche sentirci a posto. Ma il frutto di tale azione non sarebbe la crescita di un popolo. Soprattutto sarebbe una azione che sa di colonialismo. Infatti, in questo caso, siamo noi a decidere in che consista lo sviluppo; e noi decidiamo che lo sviluppo sia una sbiadita replica di quel che noi siamo. Noi non siamo il punto di riferimento dei paesi sottosviluppati, ma siamo solo gente che può dare un aiuto ad una crescita il cui punto di arrivo non siamo noi a doverlo stabilire. Il problema dei paesi “poveri” diventa così responsabilità molto seria e coinvolgente; e il loro sviluppo servirà a fare ricchezza ed armonia nel mondo e non a rendere il mondo tutto omogeneo.
Il nostro lavoro di pace in aiuto allo sviluppo dei popoli, tiene presente che le varie culture originarie possono avere scale di valori non coincidenti con la nostra scala di valori. Molte volte mi è capitato di pensare una società dove la massima ambizione non sia quella dell’avere o del potere, ma quello , tanto per fare un esempio, della spiritualità. Cosa accadrebbe e come si manifesterebbe una società in cui il valore più riconosciuto ed ambito fosse quello di una grande dignità spirituale e il fattore economico fosse solo un supporto variabile ad una vita che è ricca principalmente di valori immateriali?
E’ una visione da avere davanti agli occhi per capire meglio cosa significhi sviluppo e come debba articolarsi il nostro supporto ai singoli popoli.
Porto ancora un esempio: quando parliamo di debito dei paesi poveri, noi, i fornitori di capitali, facciamo contrattazioni per le restituzioni, o per gli interessi ed indirizziamo i capitali impiegati verso forme di consumo occidentale. Il nostro giudizio sulla bontà dell’intervento sarà quello del grado di occidentalizzazione prodotto.
Siamo sicuri di avere, in questo caso, creato sviluppo? O non avremo creato soltanto ulteriori supporti alla nostra attuale civilizzazione che, purtroppo, dobbiamo affermare come civilizzazione della conflittualità? E facendo questo, abbiamo fatto avanzare il mondo o l’abbiamo ritardato nel cammino di strade che forse potrebbero essere altre da quelle percorse dal nostro mondo?
Un discorso di questo genere porta lontano e potrà anche essere definito discorso da sognatori. Accetto la definizione, ma desidero raccomandare l’attenzione al discorso di fondo e cioè se il nostro lavoro per lo sviluppo dei popoli poveri sia un lavoro da proseguire così come è o possa o debba essere variato. Siamo noi soddisfatti della nostra civilizzazione verso cui stiamo inducendo i popoli di mezzo mondo? Certamente è lapalissiana la visione dei popoli ansiosi di possedere radioline e automobili e cellulari ed ospedali efficienti e così via. Ma ciò è il bene oppure è soltanto una ubriacatura di cui presto o tardi si pagherà il prezzo delle torri gemelle di New York?
E’ mio compito fare proposte o aprire visioni. Infatti sono chiamato a parlare della pace come condizione di sviluppo.
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L’economia e la guerra così non diventano il problema assoluto e finale di un impegno per lo sviluppo dei popoli, come spesso oggi vengono considerati, ma solo uno dei problemi da noi presi in considerazione il cui superamento sarà il primo passo di un cammino verso una crescita umana in una prospettiva di collaborazione in cui l’arroganza e la violenza non sono di casa.
La pace, dunque, ci conduce ad una visione dello sviluppo molto ricca di pensiero e prospettive.
La pace chiede e, al contempo comporta, che lo sviluppo non venga visto come puro ed esclusivo benessere economico, ma come equilibrato stare nel mondo. In particolare, la pace vede lo sviluppo dei popoli non abbienti come frutto di un coordinamento di forze che non sradichi la gente dalla propria cultura, ma la faccia evolvere fino a raggiungere quel ben-essere confacente alla propria cultura. Infatti noi dobbiamo comprendere che “obbligare” i popoli ad una mentalità economica e di considerazione del benessere, quale è quella del mondo occidentale, è in qualche modo forma di violenza che spinge ad una tipologia di sviluppo che impoverisce l’umanità, la omogeneizza e rende i popoli privi di una propria identità.
Una cultura indiana o africana, o anche dei paesi dell’Europa Sud-orientale, del tutto ‘omogeneizzata’ alla cultura occidentale produce e sempre più produrrà popolazioni disadattate con le conseguenze facili da prevedere. E’ quel che possiamo costatare a riguardo di molti popoli islamici per i quali lo stesso benessere agognato diventa contemporaneamente un benessere “di satana”. L’uomo è diviso in se stesso per cui egli vuole quelle cose che poi disprezza e che lo destabilizzano.
La pace chiede ancora uno sviluppo che sappia prescindere dalla distruzione della natura come, purtroppo, oggi facilmente accade. Se continuiamo così, fra non molti anni avremo un mondo rottamato che assedia la terra con i rifiuti. Le catene di colline di immondizie che già circondano città grandi e piccole sono un triste avvertimento che suggerisce la necessità di uno sviluppo non all’insegna del consumismo, ma all’insegna della “austeritas”, parola con cui io indico un uso parco delle risorse in uno sviluppo dove il benessere non è un sottoprodotto delle cose distrutte. Come tanta energia erogata che ha la luce solo come sottoprodotto del calore.
L’austeritas è un termine da rivalutare poiché una crescita basata soltanto o in buona parte sui consumi di cose futili e non necessarie (se non dannose) non può portare bene. Lo sviluppo del mio popolo o l’apprezzamento nel mondo del mio popolo non può consistere nella nostra capacità di consumare cose non necessarie. Un lavoro fonte di guadagno fondato sul non-necessario alla fine distrugge ricchezze come stiamo vedendo con gli abusi sulla natura perpetrati negli anni passati. Un utilizzo non necessario (quindi uno spreco) di risorse non produce un buon rapporto nella natura, ma a lungo andare produce perdita e distruzione.
Ciò porta a contemplare il rapporto pace-sviluppo come rapporto “in pace” anche con la natura in modo da individuarlo compatibile e non distruttivo di risorse.
Infine, necessario per la pace è uno sviluppo che sia dell’intero uomo, acciocché l’essere umano non sia un gigante economico e tecnologico e un nano spirituale. La capacità spirituale dell’uomo deve renderlo abile a gestire senza nocumento la sua ricchezza tecnologica ed economica.
Ne sia esempio la rottura di equilibrio dimostrata dal mondo occidentale quando il suo gigantismo tecnologico, che gli ha permesso lo sfruttamento atomico, non è stato contemperato da altrettanta ricchezza spirituale che gli impedisse di stravolgere lo stesso senso della potenza atomica fino a farla diventare forza distruttrice. Una cosa simile sta accadendo a molti popoli che dello sviluppo conoscono solo la ricchezza degli sceicchi, la frenesia di godimento di strumenti tecnologici come la vediamo nelle classi benestanti dei popoli sottosviluppati, l’irresponsabilità di governanti che immaginano se stessi come onnipotenti fruitori di armi e di beni.
Sviluppo di lavoro e di pace diventa allora il tentativo di rendere i popoli costruttori della propria ricchezza e custodi della natura, cessandosi comunque di vedere la solidarietà solo come distribuzione della ricchezza stessa.
In definitiva, perché pace e sviluppo possano interagire, occorre puntare molto sulla positività delle azioni da compiere in più direzioni, cosicché possiamo vederne tutte le conseguenze e le diramazioni. A questo scopo servono collaborazione, cooperazione, integrazione, fiducia, alleanza. Infatti, o la pace è veramente dell’uomo ed è strumento di vitalità e di progresso, oppure essa è ridotta a semplice utopia, bella, ma inutile. Buona per essere gridata, ma inutile per il vivere quotidiano.
Si comprende quindi che la pace, più che essere un ideale, è una direzione di marcia ed una metodologia di rapporti che deve avere una sua concretezza, perché deve camminare coi piedi per terra.
3. Pace e sviluppo secondo Assisi Pax International
L’Associazione Assisi Pax International è stata pensata ed opera secondo una prospettiva interdisciplinare ed interculturale, per la pace. L’associazione indica la meta della “civiltà di pace” dove l’essere umano ed ogni altro essere creato vivano la dimensione spirituale e materiale non scisse tra loro.
Al centro della propria azione c’è una proposta culturale estesa a tutti, cittadini dei paesi ricchi e di quelli poveri. Una proposta che si propone di perseguire la pace tramite lo sviluppo e lo sviluppo tramite progetti concreti che, però, partano, per quanto possibile, da un impianto culturale specifico del paese in cui si opera. Nessuno desidera imporre a chi è povero culture non proprie, ma di offrire strumenti che possano coniugare pace e sviluppo.
(A questo proposito è importantissimo tener presente che il concetto di sviluppo molto spesso non fa parte delle culture di molti o pochi popoli, così come anche quello della pace. Dobbiamo avere la coscienza che ai nostri fratelli che chiamiamo poveri, in qualche modo portiamo concetti nuovi che essi accolgono molto volentieri, ma che non sono originari per loro. Dobbiamo renderci conto che ogni contatto veicola cultura e bisogni e quindi modifica le singole culture).
Quindi noi, quando annunciamo e prospettiamo la pace attraverso lo sviluppo, indichiamo ai popoli la strada che spinge al superamento della conflittualità che spesso domina nei rapporti sociali, concretizzando opere sociali che s’ispirino alla pace.
In altre parole dobbiamo essere coscienti di portare idee e cose nuove quando operiamo lo sviluppo dei popoli.
La stessa cosa accade quando parliamo di democrazia (e per democrazia intendiamo quella nostra occidentale). Noi dobbiamo imparare a rispettare le singolarità. Ciò non vuol dire accettarle in blocco, ma avere la saggezza di attendere che le proposte di alcuni valori che per noi sono essenziali, facciano breccia nella varia cultura. Ed accettare anche che noi si possa imparare qualcosa da loro, ben sapendo che la nostra civilizzazione troppo fondata sul conflitto (specialmente nell’ultimo secolo del secondo millennio) può subire cambiamenti forse meritevoli di attenzione.
Questo è un primo passo per costruire la pace ed una pace che sia fattore di sviluppo.
Assisi Pax International pensa che il nostro mondo occidentale abbia costruito troppa parte della sua attività internazionale sul fattore economico. L’economia è importante, ma non è il tutto della umanità.
Tuttavia noi pensiamo che l’economia sia una delle basi dei rapporti interumani, ma solo se intesa con un modello di pace. E la pace è prima di tutto un rapporto al positivo tra le persone e le altre realtà create.
L’economia ha una relazione particolare con la pace, intendendo noi la pace come un ben vivere armonico, La pace è produttrice di ben vivere materiale e morale. Ma se noi intendiamo la pace come un atto di buona volontà, di “cosiddetto amore”, in pratica di sentimentalità, certamente noi non usciamo dal velleitarismo e leghiamo la pace a situazioni contingenti che durano finché durano. Certamente la bontà d’animo e la retta coscienza aiutano nelle soluzioni dei grandi problemi, ma non li risolvono. Invece dobbiamo pensare la pace come fondamento di sviluppo per il fatto stesso che la pace esiste ed è produttrice di crescita. In pratica, se non abbiamo la visuale della pace nel fare economia, l’economia stessa si ribella all’uso senza pace che ne facciamo e ci punisce.
Spiego la cosa con quanto è accaduto ed accade con la mancanza di rispetto della natura. Cosa abbiamo fatto? Abbiamo tentato di violentare la natura e di strumentalizzarla senza avere rispetto per le sue esigenze; e allora la natura si è ribellata in modo talmente violento che molti oggi fanno del rispetto della natura uno strumento di progresso economico. Questo noi lo vediamo e molti di noi, comprese anche una parte delle industrie, evitiamo di essere puniti dalla natura.
Guardiamo ora la pace. E’ possibile considerare la pace alla stregua della natura? Se non rispettiamo i dati fondamentali della pace, abbiamo una ribellione della realtà nche ancor oggi non siamo riusciti a valutare. Anzi ne abbiamo preso vantaggio.
Quando però, mancando noi di relazioni interumane al positivo, ci renderemo conto che l’economia non va più; che la distruzione avanza; che la crescita umana è bloccata, allora saremo anche capaci di valutare quale sia il contributo della pace al progresso umano.
Di questo noi non ci rendiamo conto perché ancora viviamo nell’illusione di poter galleggiare sulla povertà degli altri. Ma quando questo non sarà più possibile, capiremo la necessità della pace come fondamento del nostro ben esistere. Credo a proposito di poter portare ad esempio quanto io leggo nel fondamento del famoso ed ormai antico piano Marshall che salvò dalla fame l’Europa sconfitta. La filosofia di fondo era che se le grandi nazioni sconfitte non avessero avuto la possibilità di creare ricchezza, ciò si sarebbe ripercosso sulla stessa ricchezza USA. Così il nostro mondo occidentale ha avuto ulteriore possibilità di “galleggiare” sul terzo e quarto mondo.
Ma cosa ci prospetta ora il futuro?
In questa domanda è racchiuso il progetto di pace della nostra associazione. Allora la pace come condizione di sviluppo, non è più una bella frase ottima da sbandierare sulle piazze, ma diventa un concetto da far entrare a Wall Street per la salvezza e la crescita della intera umanità.
Potranno gli studiosi di economia farci dono della loro attenzione a simili raccomandazioni?
E’ opinione diffusa che l’economia abbia sue leggi proprie non avvicinabili a momenti etici di qualsivoglia tipo, indiscutibili per cui quando mi trovo di fronte ad un affare, lavoro per fare tale affare. Un affare è un affare e l’interesse è riconosciuta come molla sovrana su cui è inutile obiettare.
A questo punto vorrei chiedere se la realtà debba essere proprio questa oppure si possa avere una visione economica, altrettanto capace di produrre ricchezza, ma con finalità e metodologie tanto diverse da tener in conto valori quali quelli prodotti da diversa visione della società. L’eticità, in altre parole, non è una legge esterna all’economia, ma una legge intrinseca alla stessa attività economica per cui viene punito (presto o tardi) chi agisce senza rispettarla.
Per questo motivo io penso che le sacche di miseria dipendono dal fatto che l’economia, per i motivi più diversi, è deviata dalla sua finalità essenziale che è quella di distribuire “il cibo ad ogni essere vivente”.
4. Un progetto di pace e sviluppo in Albania
Come esempio di applicazione pratica dei principi e criteri sopra esposti presentiamo il nostro impegno in Albania. La nostra associazione ha ispirato e contribuito a portare avanti un progetto concreto di azione in Albania, operando in tre direzioni:
1) la pacificazione della vendetta del sangue;
2) la realizzazione del ‘Villaggio della pace ’ a Scutari;
3) la promozione della costruzione dell’Università Cattolica in Albania possibilmente con due sedi: Tirana e Scutari. In quel che segue, sarà esposto – per grandi linee – tale progetto.
Intanto, cominciamo col dire che la presenza dei Francescani in Albania risale addirittura ad una visita effettuata da san Francesco che ha sostato in quelle terre dopo un fortunoso tentativo di portarsi in Terra Santa. Da allora i frati hanno preso “stabile dimora” fino ad oggi, anche se a volte con inenarrabili disagi e sacrifici.
Prima dell’affermarsi del Regime Comunista i frati erano la più numerosa e prospera comunità religiosa. Alla caduta del regime, nel 1991, i frati rimasti erano pochissimi (appena 11), ridotti peraltro in comprensibili pessime condizioni. Nello stesso anno 1991, il sottoscritto fra GianMaria Polidoro fu inviato in Albania in qualità di Delegato Generale dell’Ordine dei Frati Minori, per organizzare la ripresa della vita religiosa francescana e pastorale. In questo contesto, i francescani hanno gradualmente ristabilito la propria presenza e missione nella tradizionale zona di Albania (il centro-nord). Lentamente e faticosamente la situazione è migliorata con la riapertura di sette conventi e la ripresa pastorale in ben 37 parrocchie per antica tradizione affidate alla cura dei francescani. Il cammino di ricostruzione materiale e spirituale è andato avanti con alterne vicende, tra cui non va trascurato l’impatto improvviso della “grande ondata” dei profughi del Kossovo.
Il progetto di cui sopra, prende inizio proprio dalle esigenze dei “nuovi arrivati” kossovari. Da allora la necessità ha spinto ad aiuti urgenti e ad adattamenti possibili. Ma non ci si è fermati all’urgenza del momento. L’occasione della venuta dei profughi ha spinto a pensare e realizzare varie iniziative, anche in vista di rendere possibile e serena la convivenza tra “vecchi” e “nuovi” albanesi. Così alle tematiche della pacificazione e dello sviluppo, si aggiungeva la grossa tematica della convivenza tra le varie etnie.
Ci siamo trovati allora ad iniziare e portare avanti un programma che comprende e, in qualche modo unifica, le varie necessità.
In particolare, quanto al 1° punto, seguendo la tradizione francescana, ci si è adoperati per la “pacificazione della vendetta del sangue”.
Questa “vendetta del sangue” va spiegata.
Essa prende forma dal “Kanuni i Lek Dukagjinit” (Kanun del Dukagjin = codice di leggi della regione Dukagjin) che proclama la vendetta per fatti di sangue. Una vendetta che colpisce i maschi (adulti) della famiglia dell’offensore. Da secoli i frati si sono adoperati perché, in questo contesto culturale e sociale, si creassero pacificazioni soprattutto attraverso tipologie consolidate di approccio. Un lavoro durissimo, non sempre con buoni risultati. Al giorno d’oggi abbiamo un vecchio frate, Dionisio, che ha superato le cento pacificazioni.
Quanto al “villaggio della pace”, i principi ispiratori sono stati:
a) insegnare la convivenza, in particolare, fra i giovani di diverse etnie;
b) studiare insieme la tematica della pace;
c) istradare i giovani al lavoro e alla professionalità.
(di questo argomento in particolare viene proposto un intervento del dr. Roberto Sannipola mio collaboratore volontario nella tematica della pace).
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Per quanto riguarda la nascita di una Università cattolica , l’associazione Assisi Pax ha contribuito e contribuisce alla sua promozione ed alla ricerca delle possibilità concrete della sua attivazione.
Il progetto di una università di ispirazione cattolica è attualmente guidata dalla conferenza episcopale albanese che ha come presidente l’arcivescovo di Scutari, Angelo Massafra.
Essa è strumento di presenza cristiana nel panorama culturale albanese e prevede, per iniziare, due facoltà: una scientifica a Tirana su terreno attiguo all’ospedale promosso dalla stessa Conferenza; ed una umanistica a Scutari per cui i francescani hanno dato disponibilità di un grande stabile ed attiguo terreno al centro cittadino: il “collegio”.
Per la realizzazione, più che i fondi economici sempre necessari, si cerca l’organismo culturale che possa gestire un simile impegno. Non è facile trovare le forze culturali adatte e pronte a tale gestione. Per questo motivo c’è necessità di un lavoro di squadra. L’Albania ha bisogno di mezzi economici che, al limite, non sarebbe difficile ottenere; ma ha maggior bisogno della capacità di utilizzare al meglio i possibili mezzi economici. Ha grande bisogno di cultura che la faccia progredire velocemente perché la sua popolazione, mortificata per così tanto tempo dalla dominazione comunista, possa recuperare il tempo perso. La capacità gestionale della ricchezza e dello sviluppo materiale è di fondamentale importanza; per questo si pensa alla dimensione culturale e spirituale.
Negli anni trascorsi, cioè nei primi anni della liberazione, a partire dal 1991, era nostra preoccupazione aiutare le popolazioni con elargizioni iniziali subito seguite dall’offerta di lavoro. E’ questo un punto importante della gestione francescana della nuova vita in Albania. I francescani, da subito, hanno capito la necessità di portare lavoro e dignità. Non hanno aiutato la fuga verso l’estero, ma hanno propiziato lavori all’interno: dalle ricostruzioni alla costruzione di strade e ponti. I francescani sono arrivati fino a provvedere lavoro per cinquecento persone. Di tale attività io stesso sono testimone qualificato essendo io, al tempo, superiore dei francescani in Albania.
La filosofia di tutto questo sta nel convincimento che un popolo raggiunge un dignitoso sviluppo quando riesce a far camminare in equilibrio le capacità spirituali, culturali e materiali ed impedire che si diventi giganti tecnologici e nani spirituali o viceversa.
Ed ora do, qui di seguito, il contributo che il dr. Roberto Sannipola, ha tracciato a proposito della realizzazione della casa della pace in Scutari (Albania) come possibilità di una pace strumento di sviluppo.
fr. GianMaria (Rocco) Polidoro ofm