RIFLESSIONI DI MARCELLO SALERNO VOLUME CIVILTA’ DI PACE
La lettura di questo volume mi ha indotto numerose riflessioni. Lo stesso Autore, per esplicita scelta di metodo, ha inteso offrire spunti di dibattito, sollecitando lo studioso, l’esperto o il semplice lettore ad interrogarsi sulla possibilità che nei vari contesti sociali (economia, politica, scienza, etc.) si possano fare piccoli passi in avanti (step by step si direbbe con linguaggio moderno) verso una «civiltà di pace». Una civiltà che abbia come punti di forza la ricerca e l’apprezzamento del positivo, la non-conflittualità, il profondo senso di appartenenza all’umano, sulle orme della spiritualità e dell’esperienza di Francesco D’Assisi.
Ho selezionato alcune delle tante sollecitazioni offerte dall’Autore soffermandomi, conseguentemente, su specifici temi affrontati nel volume che riassumo per punti.
1. Economia e “valori”.
Il capitolo intitolato “economia strumento di pace” è quello che più mi ha stimolato. L’approccio dell’Autore resta quello interrogativo. E in effetti a volte porre le giuste domande è un punto di partenza fondamentale, e risulta più efficace che somministrare risposte preconfezionate.
In questo caso Padre Giammaria si interroga sulla possibilità reale di affiancare alla «promozione di maggiore redditività» una «produzione e redistribuzione di ricchezza in sintonia con i valori che riteniamo importanti» .
A tal riguardo, indirizzo la mia riflessione sul fatto che il ciclo economico è composto di produzione e consumo. Non produrre ricchezza significa perdere ogni remota possibilità di poterla equamente distribuire. Il funzionamento del sistema economico si basa su regole precise, spesso ineluttabili quanto dure ed oggettive, che quando vengono disattese si rischiano conseguenze così negative da arrestare il processo di produzione della ricchezza. Quindi ogni analisi su economia e valori deve partire dal presupposto che non è possibile perseguire obiettivi sociali che si pongono in contrasto con le matrici fondamentali di funzionamento del sistema economico perché la ricchezza si distribuisce (equamente) se e nella misura in cui la si produce.
Faccio un esempio. L’art. 36 della Costituzione italiana stabilisce che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Si tratta, evidentemente, di una norma che sposa perfettamente non solo i principi fondamentali di ogni moderno stato sociale ma anche i valori di una «civiltà di pace». Ma che succede se l’elevato costo del lavoro (necessario a garantire al lavoratore e a tutta la sua famiglia una esistenza libera e dignitosa) induce l’imprenditore a licenziare i lavoratori o a rinunciare alla propria impresa o a spostarla altrove?
La distribuzione della ricchezza presuppone inevitabilmente la sua produzione e il sistema produttivo risponde (fino ad oggi) alle precise regole del capitalismo, del mercato e del profitto. Non intendo essere così freddo e irragionevole da negare la possibilità di individuare soluzioni di compromesso in grado di ottemperare alle diverse esigenze, intendo solo evidenziare che le nobili dichiarazioni sui valori sociali vanno sempre ponderate, possibilmente alla luce del sole, con le dure quanto ineluttabili regole (valori?) di un’economia di mercato.
2. Economia ed etica.
In questa prospettiva, anche l’accostamento tra etica ed economia risulta molto complesso e rischia, per molti versi, di presentarsi contraddittorio.
Mi spiego meglio con alcune domande provocatorie. Il sistema capitalistico moderno si basa sul profitto: è eticamente giusto il profitto? Percepire un reddito che non proviene dall’aver prestato un servizio, non è il frutto di lavoro ma il solo compenso per il “rischio di impresa” è etico? Io sinceramente non ho una risposta, eppure il profitto è il motore che muove l’attività di impresa e porta avanti l’intero sistema produttivo mondiale.
Provo ad immaginare una probabile risposta: il profitto è eticamente giusto ed accettabile entro certi limiti. Trascurando per un attimo la complessa questione di definire cosa significhi preciamente “entro certi limiti”, mi chiedo se davvero siamo portati a considerare “giusto” il profitto in quanto realmente coerente con i nostri principi etici o solo in quanto elemento necessario e ineluttabile per il funzionamento dell’attuale sistema economico.
Farò un altro esempio provocatorio: è giusto che chi presta denaro ottenga un compenso (interesse) che talora gli permette vivere “di rendita”? Ossia senza lavorare ma semplicemente percependo il reddito dei propri capitali investiti? Osservato il fenomeno in una prospettiva speculare, è eticamente giusto che chi, in difficoltà finanziarie, chiede un prestito debba poi restituire una somma più elevata, ossia gravata da quegli interessi che finiscono nelle tasche di chi vive di rendita? Anche qui provo ad immaginare una possibile risposta: è giusto percepire gli interessi ma entro certi limiti altrimenti diventa usura (eticamente sbagliata e inaccettabile). Anche in questo caso mi chiedo se in realtà non si stia facendo di necessità virtù, nel senso che si considera “giusto” il pagamento degli interessi non tanto perché “etico” ma perché necessario e ineluttabile a far funzionare il sistema economico: senza gli interessi nessuno presterebbe denaro, nessuno farebbe più ricorso al credito e il sistema economico si arresterebbe. Per questo siamo tutti “costretti” a considerare eticamente accettabile la rendita.
Ancora un esempio semplice e facilmente comprensibile. E’ giusto che chi possiede beni immobili viva con il reddito degli affitti, ossia viva agiatamente senza offrire il proprio contributo lavorativo alla società? Eppure è qualcosa che il sistema economico deve necessariamente accettare, poiché senza il compenso di un affitto nessuno avrebbe convenienza ad investire in immobili e a concederli in locazione. Con la possibile conseguenza che chi necessita di prendere in locazione una casa perché non se la può acquistare rimarrebbe senza tetto. Lo si voglia o no, la rendita è una regola intrinseca del capitalismo e siamo portati (obbligati?) a considerarla eticamente corretta (entro certi limiti) solo perché non esistono alternative. Queste e le altre mille contraddizioni del sistema economico capitalistico mi suscitano numerose perplessità sull’accostamento etica-economia.
Scrive Padre Giammaria: «l’attività economica, come ogni altra attività umana, è etica … quella che noi chiamiamo norma etica è il modo di fare economia secondo le leggi dell’economia (l’economia, dicevamo, è per raccogliere e produrre beni per tutti e non in modo egoistico)» e aggiunge: «è praticabile l’ipotesi di una società in cui la ricchezza abbia già dentro di sé un impedimento al grande accumulo: cioè considerare l’accumulo (che è ricchezza improduttiva) come nonsenso?». Orbene, per quanto possa sembrare non rispondente a criteri etici, il motore del sistema economico capitalistico in cui viviamo si basa proprio sull’accumulo di capitale. Le grandi imprese che costituiscono il sistema economico mondiale nascono grazie al grande accumulo di capitale. Il capitalismo ha le sue regole che per quanto si tenti (giustamente) di “temperare”, si impongono a prescindere (e talora contro) ogni presupposta regola etica. Lo dico senza pessimismo o toni drammatici, ma con lo stesso spirito asettico del biologo che osserva i fenomeni della natura, li analizza e ne relaziona gli esiti.
Mi si dirà che è possibile (e doveroso) trovare, ancora una volta, un compromesso tra esigenze etiche ed esigenze “intrinseche” dell’economia. Sono perfettamente d’accordo, questo deve essere lo sforzo del ricercatore. La ricerca del migliore soluzione possibile tra etica ed economia è giusta e necessaria, ma il risultato che deriva resta un compromesso. Mi chiedo: può un compromesso pretendere di portare con sé un marchio di eticità?
3. La tensione verso il positivo
Sottolineavo pocanzi che queste considerazioni non vogliono indurre al pessimismo. Anzi, condivido in pieno la scelta dell’Autore verso una visione del reale che tende al positivo. Qualsiasi obiettivo o proposito dell’azione umana può aspirare a risultati apprezzabili se e nella misura in cui è fondato su una visione ottimistica (e quindi propositiva) dell’esistenza. L’autore sottolinea come questo sia ancora più vero quando l’obiettivo è una civiltà di pace, poiché «la mediazione avviene tra due positività … Quando ci troviamo all’interno di un conflitto, dobbiamo imparare a cogliere le due sponde positive che esistono in ogni essere umano ed in ogni realtà» .
Sono d’accordo. La mediazione richiede l’individuazione dell’aspetto positivo che è dentro ognuno di noi e nel nostro prossimo. Condivido pienamente l’idea che in questa prospettiva è possibile far sì che «la superbia torna ad essere dignità; … l’avarizia torna in austerità; … l’ira in indignazione … l’invidia in emulazione» .
La tensione verso il positivo tuttavia deve essere necessariamente accompagnata dall’elemento “verità” «pena la falsità del positivo evocato e la inutilità dell’atteggiamento conseguente» .
4. L’integrazione economica europea: un esempio positivo.
Proprio in ossequio alla tensione verso il positivo, voglio evidenziare uno dei tanti aspetti di “positività” del nostro sistema economico. Come rileva anche l’Autore, se l’Europa ha potuto godere di un periodo di pace e di integrazione è grazie, non lo dimentichiamo, ad un obiettivo puramente economico fissato con il Trattato di Roma del 1957: realizzare un’area di libero mercato e un regime di libera concorrenza. Mi chiedo: è stata una scelta “etica”? Non saprei dirlo, di certo essa ha portato nel lungo periodo molti frutti, non solo in campo economico.
A questo proposito l’Autore si chiede: «sarà mai possibile avere tra le nazioni regole tipo antritrust che impediscano almeno le guerre peggiori? Io penso che si possa intervenire creando situazioni di non guerra, come è avvenuto con la creazione dell’Unione europea» . Condivido l’intuizione di fondo, ma le regole antitrust nascono e si applicano ai rapporti tra le imprese e vedo difficile una “estensione” ai rapporti politici tra gli stati. Tuttavia, il ragionamento contiene una sua lucida razionalità. Mi spiego meglio. Le ragioni economiche sono spesso alla base dei conflitti bellici. La condivisione di comuni percorsi come, ad esempio, l’integrazione dei mercati, crea inevitabilmente legami di interdipendenza economica tra gli stati che riducono sensibilmente il rischio di conflitti bellici.
Immaginiamo due nazioni fortemente interdipendenti economicamente, ossia in cui il livello di produzione e di consumo (e quindi di ricchezza) di una nazione dipenda strettamente dalle stesse variabili dell’altra. In tali condizioni una guerra produrrebbe tra le due nazioni effetti negativi reciproci tali da renderla una ipotesi assolutamente non conveniente. L’integrazione dei mercati europei e l’interdipendenza che ne è derivata, ha reso assolutamente poco probabile l’ipotesi di conflitti bellici tra nazioni europee in quanto ormai condividono per tantissimi aspetti i reciproci destini economici. Anzi, il fatto che i Trattati europei ormai da anni prevedano specifiche politiche di coesione, ossia politiche volte a compensare gli squilibri economici tra le aree più deboli e quelle economicamente più forti dell’Europa, dimostra proprio la necessità di andare nella direzione di una reciproca solidarietà. Anche questa volta non solo (e non tanto) per ragioni etiche o sociali, quanto per stringenti motivazioni di ordine economico.
Per questo l’intuizione di Padre Giammaria è condivisibile: l’integrazione economica induce una forte interdipendenza reciproca tra le nazioni che favorisce situazioni di «non guerra».
5. Ricchezza e benessere.
Voglio concludere con una riflessione di ordine generale, anche per ridimensionare il “problema” economico ed enfatizzare alcuni valori che ritengo ben più importanti.
Ho condiviso molto le considerazioni su ricchezza e benessere. Il benessere di una nazione, lo riconoscono ormai gran parte degli economisti, non può essere più misurata semplicemente con le variabili della ricchezza, ad esempio con il PIL (prodotto interno lordo). Anzi, si vanno sviluppando teorie economiche in base alle quali il benessere si accrescerebbe grazie ad una crescita meno forte ma più equilibrata (si pensi, ad esempio, agli effetti positivi di una crescita economica più equilibrata sulla tutela dell’ambiente, sul consumo di energia, sulla qualità della vita nelle nostre città…).
Si tratta delle cosiddette “teorie della decrescita” che mirano a modificare il paradigma dominante in base al quale occorre aumentare i consumi per dare benessere alla popolazione. Le teorie della decrescita si pongono in aperto contrasto con il senso comune politico corrente, che pone l’aumento del livello di vita rappresentato dall’aumento del PIL come obiettivo fondante e generalizzato di ogni società moderna. Spesso, infatti, la politica insiste sulla crescita economica, sul reddito, sui consumi, trascurando il fatto che il benessere di una collettività dipende in larga parte da tante altre variabili economicamente non misurabili.
A questo proposito mi piace richiamare alcuni passi di un celebre discorso di Robert Kennedy, con i quali concludo queste mie riflessioni. Si tratta di un discorso tenuto presso la University of Kansas, il 18 marzo del 1968 ma che ancora oggi conserva intatta tutta la sua attualità.
«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».